Cristiano Comelli
opera 1^ classificata
1.
Le sottili mani di mia nonna
tremebonde eppur sicure
adagiate sui tasti
di un vetusto, impolverato pianoforte
ricamando vanno
l’ultimo, ineffabile concerto,
da dedicare alle bambole di porcellana,
sole, fedeli compagne,
di una vita inghiottita dal vortice,
d’una solitudine scritta sulla pelle,
con l’inchiostro indelebile
d’una lacerante maledizione.
Il primo accordo,
cede il passo a sussulti incostanti,
d’un cuore ribelle e capriccioso,
ossa indebolite reclamano un letto,
l’abat-jour
regala al sorriso della vecchierella
il bagliore perenne d’una luce soffusa.
Il mondo si concede
alle tenere braccia dell’oscurità,
la musica accompagna la nonna
verso l’ultimo strato del cielo
in un sonno di eterna,
compiuta dolcezza.
Francesco Sassetto
opera 2^ classificata
Parole
Parole dai miei quarant’anni così duri
da masticare ogni giorno
così niente a guardarli da distante,
parole di sempre come sempre tante,
troppo a celebrare i miei modesti affanni.
Parole di poca utilità che nulla vogliono
spiegare perché non tengo in tasca
nessuna verità ma che devo mettere
su questa carta perché scrivere, dire, ascoltare
è tutto quello che ho imparato a fare.
Parole per la favola antica di un posto felice
forse narrata da te, amica di un’altra età,
che oggi non so raccontare perché ogni cosa bella
nasce e muore in un sogno che non si dice.
Parole che chiedono la forza di varcare
la riga di pietre della riva a tentare il mare,
a inseguire altri miraggi da cantare,
parole per frugare sotto la scorza uguale
dei giorni, per domandare ragione
di questo viaggiare al galeotto che guida
partenze e ritorni, che tace il segreto
della nostra stagione.
Saranno queste il mio ultimo sforzo,
l’umile saio di una povera fede
tre carte disperse e stracci di ricordi,
tra lenzuola disfatte di inutili abbracci,
l’acre salsedine di luglio e il vento gelato di gennaio.
Antonio Vincenzo Paradiso
opera 3^ classificata
H.I.V.
Mi conosco,
ma non ho imparato a morire;
ingenui, s’assottigliano
i sogni del piacere perduto:
voci… odori… corpi terribilmente soli.
Essi sanno… essi sanno in modo quasi umano.
La febbre nelle vene è incontenibile,
precipita la vibrazione delle dita
che seguono a ritroso brandelli cellulari,
lungo l’endovena scampata:
lo sento in me… nei muscoli… nello spirito,
dove si logora un respiro intermittente,
quel brivido solido di epopee senza scrittura.
Povera necessità
Che si estingue sull’affanno di un livido che ancora vive;
l’assenza di tracce, però, indigna il medico di turno:
a lui intitolerò il mio libro.
non so se vivrai per preoccuparti ancora
Del mio sangue vivo… dopo tutto i miei silenzi
Alle tue interrogazioni ardite meritano una risposta:
io pago i miei debiti e non mento.
Traspare una tua impronta
Sull’ultimo sipario dei miei ricordi:
come vorrei poterlo sollevare e vedere la replica di quest’era,
e varcare il miglio della mia corsa,
dove oggi persistono i destini del bene e del male.
Il gioco del vivere è raro, per arte e
rimane sconosciuto, per natura, armato di nemici e morte.
Ma adesso aspetto la violenza del tempo, il suo passaggio;
Ho paura ma non fermarmi,
ancora un po’ e potrai avvicinarti,
e caricare la notte di angeli azzurri:
io, in questa terra di nessuno,
di clessidre ed enigmi, scrivo il tuo nome
sul dorso del domani e richiudo il diario;
semplicemente ascolto il vento… che mi raccoglierà.
Dario Sardelli
opera 4^ classificato
passato – prossimo – piuccheperfetto
emozioni
come fuochi d’artificio,
esplodono in piriche scintille colorate.
seguo il ricciolo del tuo nasino,
ghirigoro barocco,
tra corpi rigidi e nature arrovellate:
abilità acquisite da professor Tumulto.
non mi bastano sul tuo volto
scampoli divini,
svogliati ronzii sulle spalle.
non mi basta fruttato
il retrogusto di pelle bruna,
fremiti al perfetto sillabare.
voglio nuovi sensi per nuove sensazioni.
attesa, luce, vento.
poi potranno cadermi addosso
quintali di merda
tonnellate di merda.
se in tasca ho una cannuccia
riuscirò a respirare.
ti spoglierò di fredde stelle brille,
ubriaca luna perugina alla nocciola.
libera, nel cotonato fumo di gabbiani,
sarai solo polvere.
nulla di più.
nulla di meno.
solo
triste, arida
Cenere leggera.
Roberto Silleresi
opera 5^ classificata
Il prezzo della fantasia
Un ceppo di pino fatato
zampilla sulfureo
in questo pianoro
di uniformi entusiasmi.
Otto sassi di fiume
ridanno un sorriso
alla statua di neve.
Sotto gli evanescenti ombrelli
di un coro di meduse
lambicca il tempo
sulla cosmesi di un pierrot.
Sono cresciuto tra le lamine
di un calendario di sogni
con la vocazione dell’ossimoro.
Ho un pastello di torba
per imprimere il prezzo
della fantasia
sulla forma del vento,
fodera invisibile ai miei gesti.
Raffaella Magliocca
opera 6^ classificata
en plein air
una finestra spalancata
guarda nello spazio recintato
da mattoni di cemento
da tetti di cielo
da fili di voci attorcigliate in onde
e scivola
su una linea
con ondulazioni curve
con voci di luce
quante risposte percuotono
l’occhio di domande!
Sfumature colori
pioggia odori
di luce
ridono a scroscio
e corrono
nel ventre di un rettangolo
di una finestra spalancata
al respiro di immagini
che vivono
... nell’occhio che guarda
e domanda esisto?
E l’iride si frantuma
nella bocca della luce
e tappezza il nero
della pupilla di colore
e vive.
Adriana Scarpa
opera 7^ classificata
Dello specchio
Dello specchio dimmi
dentro cui rimangono catturate le immagini.
L’altro noi riflesso
si consuma prigioniero dell’unica dimensione
innaturale e sconsolato
con pesanti ali incollate d’argento
che non lo fanno volare.
Nasconderlo sotto coltrine – lo specchio – perché non rapini il soffio vitale che è in noi
perché non diventi
il pozzo oscuro degli smarrimenti,
la voce soffocata in gola.
Mai frantumarlo – lo specchio – ché ogni scheggia poi imprigiona di noi
l’immagine e l’anima
e se anche sfuggiamo da una, le altre
si fanno pugnali minuscoli,
zanne di lupo che unghiano.
Costretti dentro pareti invisibili
vorremmo sottrarci al laccio/stregone
ma ci abbranca il di noi capovolto
e restiamo catturati nel tempo
come certe presenze inquietanti
nei sotterranei di antichi castelli.
Mai fissarlo – lo specchio – teniamolo stretto l’involucro nostro di carne
strappiamolo al vetro argentato che rapina
i tratti del volto e con grinfie appuntite
ci scava.
Di chi quei lamenti udibili appena?
Quante anime stanno, invisibili
invetriate dentro lo specchio?
Marco Galvagni
opera 8^ classificata
I figli della guerra
Anni tremanti
appesi ad una foglia
su per il vorticoso dedalo
dei sentieri della vita.
Baci screziati di viole
sussurravano amore
fra teneri abbracci
e complici carezze.
Ora,
noi figli della guerra
ascoltiamo l’eco dei silenzi
dei cuori stranieri
e, intrisi di tristezza,
vaghiamo nella luce fatua
della brughiera
incendiata dalla battaglia.
Poi,
quando finalmente s’immolerà
il cuore nostro schiavo
della sete amara del potere
non annasperemo
più naufraghi nelle impervie trincee
ma scacceremo complici
l’orrore
con una promessa di pace
che diventerà,
nella nostra oasi di quiete,
oro fuso
d’amore tramato fitto.
Francesca Di Cesare
opera 9^ classificata
Aborto
È una nota appena percettibile,
lo strillo di un vulcano,
un mormorio di campane viola,
il grido rauco dell’oscurità,
un vortice nello stomaco.
Un guanto marino
stretto al mio organo
che vomita sangue nero
come sputi di seppia.
Un labirinto di alghe
che affonda il cuore.
Un verme si rotola
cercando di costruirsi
mentre lance asettiche
lo strappano al delirio
di un pianto.
È ghiaccio in fondo all’anima.
È il tuo ramo secco
che ha dato respiro
a un grido di rabbia e orrore.
L’ultimo granello di sabbia
prima della tempesta.
È una minestra di sangue,
una mano di mostro
che morde la vita
con le sue siringhe e i suoi aghi
bianchi.
Pulizia, ordine
che si fa spazio
nell’immondizia dell’anima,
nella violenza dell’amore,
in una vita
sprecata.
Antonio Scapini
opera 10^ classificata
Il fiore della terra
Sento il vento foriero
d’una novità ciclica,
porta il suo messaggio
nel linguaggio dell’acqua,
che la terra traduce
nella luce del fuoco,
come candido gioco,
colorata altalena,
in vita, morte, vita.
E nella terra donna,
che a tutto si concede
con pìetas materna,
vedo affondar radici
in un primordiale istinto vitale.
L’eredità assorbita
pulsa, e tiepida scorre
in un tronco che assume
ormai fattezze umane.
Ora il morbido rosa
dei fiori, veste i rami,
che in alto, stormendo, al cielo tendono,
di carnalità, e subito
contro l’etereo azzurro
è lotta, è fede, è arte
che nasce, muore, nasce.
Oltre questo non vedo,
non sento, ma oltre penso,
e già dolce naufraga il mio pensiero,
che pur oblìa ed oblìa
in questa grande voluttà terrena,
là, oltre il finito, dove
ancor sovvien l’eterno.